di Claudio Bocci, Direttore Federculture, Consigliere delegato Comitato Ravello Lab – Presentato il 9 novembre scorso a Roma, il Rapporto Federculture fotografa un paese che si è lasciato alle spalle i momenti più difficili dettati dalla crisi economica. Il momento positivo è però quello che deve consentire di riflettere sui nodi strutturali del nostro sistema culturale e intervenire per affermare un’impostazione strategica centrata sulle enormi potenzialità della produzione di valore culturale.
I dati forniti dal 13° Rapporto Federculture, dopo una lunga fase di anni difficili, mostrano incoraggianti segnali di ripresa. Nel 2016, gli italiani tornano a spendere in cultura per un valore stimato di 68,4 miliardi di euro, l’1,7% in più sull’anno precedente e il 7% in più considerando il triennio che abbiamo alle spalle. Con la preoccupante eccezione di libri e concerti di musica colta, aumentano tutte le occasioni di consumo culturale: + 2% il teatro, + 5% il cinema, più visitatori a musei, mostre (4%) e ai siti archeologici (+5,4%), con i picchi di questi ultimi dati (45 milioni di visitatori nel 2016) trainati dall’introduzione delle prime domeniche ad ingresso gratuito. Di particolare interesse la performance dei musei dotati di autonomia speciale: a due anni di distanza dall’avvio della riforma i primi 20 musei statali hanno registrato, nel periodo ricompreso tra il 2014 e il 2016, 8 milioni di visitatori per un introito totale di oltre 31 milioni di euro (rispettivamente + 16,7% e + 37,7% nel periodo considerato). Anche il turismo, sostenuto dalla progressiva riduzione di destinazioni sicure, raggiunge nuovi record: nel 2016 gli esercizi ricettivi hanno registrato il massimo storico di arrivi (116,9 milioni) e di presenze (403 milioni) e il settore continua a crescere anche nei primi sette mesi del 2017: oltre il 4%.
Ma non sono tutte luci ovviamente, poiché le note positive non devono far dimenticare le criticità che tuttora permangono. Un dato su tutti: la lettura nel nostro Paese è ancora abitudine di poche: solo il 40,5% degli italiani legge almeno un libro all’anno e, dati alla mano, per alcune fasce della popolazione di può parlare di vera e propria ‘esclusione culturale’; gli italiani che in un anno non svolgono alcune attività di tipo culturale non il 37,4% e questa percentuale nelle famiglie a basso reddito raggiunge il 50%. Anche nel confronto europeo non siamo messi bene. Secondo i dati di Eurobarometro, a fronte di una spesa media delle famiglie europee in cultura pari allo 8,5% sul totale dei consumi, il nostro Paese si colloca nella fascia bassa con un valore del 6,7%, poco prima di Cipro, Irlanda, Portogallo, Romania e, fanalino di coda, la Grecia.
Come più volte è stato sottolineato, la quantità di risorse destinate alla cultura non esaurisce le questioni aperte che sono sempre più collegate alla qualità dei progetti messi in campo, soprattutto in riferimento alla necessità che, per un paese come il nostro, non si possa prescindere dall’intesa tra diversi livelli istituzionali (Mibact e Regioni, in primo luogo) e tra pubblico e privato. In questa direzione, tuttavia, qualcosa si muove: in vista della costituzione del Sistema Museale Nazionale, con la seconda edizione del Programma MuSST-Musei e Sistemi Territoriali, su cui è impegnata la DG Musei del Mibact, si introduce un esplicito indirizzo nella direzione di favorire la progettazione integrata tra i Poli Museali e le Regioni di riferimento ponendo il tema della gestione coordinata delle risorse culturali. Così come, la recente Legge Regionale della Lombardia (n.25/2016) che, all’art. 37 prevede esplicitamente i Piani integrati della cultura, prevedendo espressamente il coordinamento tra soggetti pubblici e privati. Si tratta di segnali promettenti che lasciano sperare che una ‘cultura del piano’ possa progressivamente affermarsi tra i diversi livelli istituzionali e, per questa via, qualificare l’azione amministrativa di cui c’è grande bisogno.
La presentazione del Rapporto Federculture è stata anche l’occasione per ribadire come sia opportuno, nel momento in cui il bilancio del MiBACT torna a oltre i 2 miliardi, che le risorse investite in opere (restauro, riqualificazione di immobili, ecc.) siano sempre saldamente agganciate a solidi piani di gestione, nella consapevolezza che è proprio la gestione l’elemento di raccordo tra tutela e valorizzazione. In questo senso, l’esperienza accumulata dai Siti UNESCO, le uniche realtà impegnate a redigere uno strumento programmatico finalizzato alla tutela, alla valorizzazione e alla gestione del patrimonio culturale materiale ed immateriale, può rivelarsi preziosa. Si tratta di un tema su cui, a differenza di molte Amministrazioni locali, il MiBACT ha fatto sempre molta fatica a misurarsi: eppure la legislazione c’è già. Gli artt. 111 e seguenti del Codice dei Beni Culturali, che risale ormai al 2004, non sono mai stati al centro delle politiche del Ministero ma, oggi, l’esigenza di raccordare cultura e ‘intrapresa’ è ormai ineludibile.
In questa direzione, potrà senz’altro essere utile, il risultato ottenuto dalla Conferenza Nazionale dell’Impresa Culturale (svoltasi a luglio scorso a L’Aquila), promossa congiuntamente da Federculture, AGIS, Alleanza delle Cooperative e Forum del Terzo Settore, che ha visto accolta, da parte del Mibact, la proposta di creare un Tavolo Interistituzionale in materia di Gestione, affidato alla Sottosegretario Antimo Cesaro, con l’obiettivo di dispiegare le enormi potenzialità del rapporto che lega la cultura allo sviluppo dei territori, nella sua duplice accezione di crescita economica e di coesione sociale. In questa favorevole congiuntura di policy pubblica (Riforma del Terzo Settore che introduce e norma l’impresa sociale; l’attesa approvazione al Senato del ‘ddl Ascani’ che disciplina le imprese culturali e creative recentemente licenziato dalla Camera), emerge con sempre maggiore chiarezza la necessità di comprendere il profilo, prima culturale e poi operativo, dell’impresa culturale: una forma di impresa che, utilizzando metodi e competenze tipiche delle aziende private, si impegni con, qualità ed efficienza, a favorire la pubblica fruizione, l’accesso alla cultura, la partecipazione dei cittadini all’esperienza culturale. Peraltro, se si imboccasse con decisione questa strada che mira a favorire la nascita di nuove imprese culturali, frutto magari di accordi tra pubblico-pubblico e tra pubblico e privato (si pensi, ad esempio, allo sterminato patrimonio ecclesiastico), si darebbe una prospettiva di lavoro alle legioni di giovani che con grandi speranze si formano negli innumerevoli master in management dei beni culturali e che vedono poi frustrate le loro attese per mancanza di domanda di lavoro qualificato, di cui, invece ci sarebbe enorme bisogno. Ma la formazione di competenze adeguate non è un tema che riguarda solo i giovani: il processo di valorizzazione richiede un percorso lungo e la comprensione di dinamiche complesse che richiedono capacità di visione, la conoscenza della legislazione, dei processi amministrativi e, nel contempo, dell’economia della cultura.
Per questo, riteniamo utile la proposta di Federculture, ribadita in occasione della presentazione del Rapporto, di istituire a livello regionale (non dimentichiamo che in materia di valorizzazione le Regioni mantengono competenza concorrente), una Scuola di Governo locale per lo sviluppo a base culturale, al fine di favorire la crescita di centri di competenza che lasci intravvedere con chiarezza le prospettive che, per un paese come l’Italia, si possono aprire investendo nell’economia della conoscenza. Una visione di politica pubblica che dovrebbe farsi strada anche a livello governativo con la costituzione del CipeCT-Comitato Interministeriale per la Politica Economica Cultura, Turismo e Industrie Creative (1) che, in accordo con le Regioni, dovrebbe porre a base dello sviluppo futuro del nostro paese la piattaforma culturale.
1.Cultura, Turismo, Industrie Creative: una politica ‘industriale’ per lo sviluppo dei territori