Dal 2 luglio prossimo sarà esposto nelle sale del Museo Diocesano di Rossano Calabro il “Codex Purpureus Rossanensis”, prezioso evangelario miniato la cui produzione si colloca fra il IV e il VII secolo. Questo Codice è uno dei più antichi testi illustrati della storia e dall’ottobre 2015 riconosciuto quale Patrimonio dell’umanità ed inserito dall’UNESCO tra i 47 nuovi documenti del “Registro della memoria mondiale”.
Sottoposto a mesi di impegnative indagini ed analisi nei laboratori romani dell’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario (Icrcpal), il Codice è un manoscritto del Nuovo Testamento, dal formato di 200 x 307 mm, in pergamena colore porpora (da qui il nome “Purpureus”), di straordinario interesse dal punto di vista biblico e religioso ma anche sia artistico, paleografico, storico e documentario.
Quello giunto a noi è solo una parte dell’opera: i suoi 188 fogli di pergamena di agnello di ottima qualità e frattura, forse dei 400 originari (l’altra metà è andata probabilmente distrutta nel secolo XVII o XVIII in un incendio, di cui è rimasta traccia negli ultimi dieci fogli), contengono soltanto l’intero Vangelo di Matteo e quasi tutto quello di Marco (fino al versetto 14 dell’ultimo capitolo); nel corpo del volume si trova anche una parte della lettera di Eusebio a Carpiano sulla concordanza dei Vangeli. La legatura in pelle scura risale al sec. XVII o XVIII.
Esso comprende n. 15 illustrazioni decorative, superstiti immagini di un più ampio corredo iconografico, aventi per soggetto fatti, avvenimenti, parabole riguardanti la vita e la predicazione di Gesù Cristo. Le miniature, tranne tre (IX, X e XV), rappresentano visivamente la vicenda storica ed il messaggio evangelico di Gesù Cristo nella sua ultima settimana di vita. Esse sono tratte dai quattro Evangeli, compresi quelli di Luca e Giovanni i cui testi sono andati perduti. Le 15 tavole miniate occupano altrettanti fogli, distinti da quelli contenenti il testo, e riproducono, in continuità visiva, il ciclo pittorico o musivo di una chiesa o basilica di quell’epoca, dedicato alla vita e all’insegnamento di Gesù : tale accorgimento presenta un’autentica unicità rispetto ad altri codici miniati. Di esse 10 illustrazioni presentano la medesima impostazione visiva e grafica: la parte superiore è occupata dalla scena evangelica ed è separata da una sottile linea blu dalla scena inferiore, che è riservata, nella parte centrale, a quattro Profeti, dipinti a mezzo busto, tutti con il braccio destro alzato, con l’aureola e soltanto David e Salomone anche con la corona regia; al di sotto dei Profeti, che con la mano destra indicano l’avverarsi delle loro profezie nella scena superiore, ci sono infine le loro citazioni in cartigli o rotoli.
Dal punto di vista della ricerca storica Il Codex Purpureus Rossanensis è ancora una sciarada, che appassiona da decenni studiosi di tutto il mondo. E’ un’opera adespota scritta in caratteri onciali, lettere maiuscole greche o maiuscole bibliche, su due colonne di 20 righe ciascuna. Le prime tre linee, all’ inizio dei Vangeli, sono in oro e il resto in argento e le parole non recano accenti, né spiriti, né sono tra di loro separate, né compaiono segni di interpunzione, tranne i punti che segnano la fine dei periodi.
La colorazione purpurea delle pagine – resa possibile dall’immersione dei fogli nel bagno di una sostanza dalla tinta rosso porpora, costosa perché estratta da migliaia di particolari molluschi che vivono soprattutto in quel braccio del Mediterraneo prospiciente la Palestina- e la sua alta qualità fanno presumere che essa sia stata prodotta a Tiro, la cui porpora era rinomata nell’antichità. La particolare rarità delle pergamene purpuree, determinata dall’ esclusiva prerogativa del colore porpora a favore degli imperatori di Bisanzio e dalla proibizione in quei secoli di eseguire codici con quella colorazione, ne raccontano maggiormente la su unicità, così come gli inchiostri d’oro e argento e l’efficace e superba realizzazione delle vivaci miniature (cosa che non ha riscontro in altri coevi documenti). Le splendide ed armoniose illustrazioni visive della parola di Cristo, documenti rarissimi dell’arte sacra bizantina del V-VI secolo, risultano infatti essere espressione – assieme alle pergamene lavorate – di alta qualità artigianale.
ll “Codex Purpureus Rossanensis” è il testo evangelico tra i più antichi ed attendibili, nonostante alcuni errori di trascrizione degli amanuensi. Dal confronto con altri manoscritti coevi di certa localizzazione si evince che potrebbe essere stato prodotto in Siria, forse ad Antiochia, ma su come sia giunto a Rossano è ancora un mistero. Si ipotizza che un’ondata migratoria di monaci greco-orientali avvenuta nel VII secolo a causa del primo Iconoclasmo abbia condotto un manipolo di monaci che custodivano il testo sacro a Rossano, anche se non è del tutto abbandonata l’ipotesi che sia invece stato un nobile aristocratico a portarlo fino in Calabria. Quasi certamente il Codex veniva usato durante la Messa, dato che la diocesi di Rossano era fortemente legata al rito di lingua greca, praticato fino al 1462 circa, nonostante ovunque fosse già in uso quello latino. Dopo lo scisma della Chiesa Orientale, infatti, i Normanni conquistarono l’Italia Meridionale, riportando le diocesi calabresi sotto la giurisdizione di Roma e avviando l’opera di latinizzazione della lingua e delle strutture. Rossano, dove la cultura e la tradizione greca erano più radicate, reagì contro questa politica ed ottenne che le venisse concesso il mantenimento del rito greco. Il conte Ruggero, considerata la delicata situazione politica e, nel contempo, per ingraziarsi clero e popolazione, elevò Rossano al rango di Arcidiocesi (1085), chiedendo come contropartita il passaggio sotto la giurisdizione di Roma e, di conseguenza, al rito latino, fortemente sostenuto dall’ arcivescovo di Reggio Calabria, Mons. Matteo Saraceno. In questa fase, inevitabilmente, i testi greci caddero in oblio e furono archiviati. In un inventario del Settecento si parla di circa trenta libri scritti in greco e custoditi nella sagrestia della Cattedrale. Il progressivo disinteresse e la dimenticanza, seguito al disuso liturgico dei testi, condusse, verosimilmente, allo smarrimento o alla distruzione della maggior parte di essi, inclusi i Vangeli di Giovanni e Luca, di cui il Codex è mutilo.
Il “Rossanensis”, salvato da rapine, distruzione e oblio, è stato conservato per secoli dall’ Arcivescovado dell’antica città calabra; dal 18 ottobre 1952 è custodito presso il Museo Diocesano di Arte Sacra di Rossano. Citato per la prima volta nel 1831 da Scipione Camporota, canonico della Cattedrale cui si deve una prima sistemazione e l’attuale numerazione con inchiostro nero delle pagine, fu portato agli onori delle cronache nazionali nel 1846 dallo scrittore e viaggiatore Cesare Malpica nel saggio “La Toscana, l’Umbria e la Magna Grecia: impressioni”. Nel 1880 gli studiosi tedeschi Oskar von Gebhardt e Adolf von Harnach pubblicarono a Lipsia lo scritto “Evangeliorum Codex Graecus Purpureus Rossanensis”, presentando così l’evangeliario all’attenzione della cultura europea ed internazionale.