L’ accessibilità è un concetto molto complesso, che riguarda più ambiti della vita umana: da quello sociale a quello economico, da quello privato a quello pubblico, dalla politica all’ambiente. Esso ha subìto una profonda trasformazione nel corso del tempo soprattutto per effetto dell’evoluzione del concetto di disabilità, cui è strettamente legato. Abbiamo utilizzato come guida per navigare fra i diversi approdi di questa evoluzione un lavoro di tesi estremamente interessante, “Accessibilità: tutti inclusi Sfide per una politica integrata di accessibilità per tutti” di Lorenzo Porzio, POLITECNICO DI MILANO – Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni, pubblicata nel 2019, della quale riportiamo dei brani che serviranno a indirizzare il nostro percorso. Leggi il trattato qui>>
Il concetto di accessibilità viene oggi utilizzato con un’accezione prettamente positiva nel linguaggio della sociologia e della progettazione, in quanto un suo elevato grado comporta vantaggi in termini di sviluppo e qualità della vita delle persone, mentre una sua riduzione implica condizioni di isolamento delle stesse. Nel mondo della progettazione architettonica gli approcci basati su ‘soluzioni speciali’, ovvero ambienti ad accessibilità riservata e attrezzature dedicate destinate a profili d’utenza disabile specifici, o su risposte progettuali focalizzate sulle esigenze dei soli utenti disabili fisici, hanno iniziato ad essere sostituiti da alcune metodologie progettuali che mirano a realizzare luoghi, prodotti e servizi usufruibili dalla più ampia fascia di utenza possibile di popolazione. È il caso per esempio del Design for All, dell’Universal Design, dell’Inclusive Design e dell’Accessible Design.
Questi diversi approcci alla progettazione per l’accessibilità sono spesso confusi tra di loro, sono usati come sinonimi ed è sempre più difficile distinguere gli uni dagli altri. In una nota nella raccomandazione redatta dopo una riunione dei ministri dell‘Unione Europea del 2009 si fa riferimento ad una convergenza, tra gli altri, dei termini ‘barrierfree design’, ‘design for all’, ‘inclusive design’, ‘accessible design’, e ‘accessibility for all’ verso il termine ‘universal design’. Tutti questi orientamenti prendono in considerazione le esigenze di un più ampio spettro di persone nel processo di progettazione per garantire che gli spazi, le apparecchiature ed i servizi possano essere utilizzati dalla più ampia fascia possibile di utenti, comprese le persone anziane e quelle con disabilità.
Questa linea di pensiero si allinea con la descrizione che l’ICF fa dello stato di funzionalità di una persona, legato anche ai fattori ambientali esterni. Come afferma A. Laurìa (in L’Accessibilità come “sapere abilitante” per lo Sviluppo Umano: il Piano per l’Accessibilità, in Techne, journal of technology for architecture and environment, VII, 2014), infatti, l’accessibilità “esprime l’attitudine di un ambiente a garantire ad ogni persona, a prescindere dall’età, dal genere, dal background culturale, dalle abilità fisiche, sensoriali o cognitive una vita indipendente”. Anche per questo il concetto di accessibilità ha come caratteristica l’essere dinamico e variabile nel tempo, in quanto legato alle persone e quindi alla società e alla cultura di un determinato periodo storico, oltre che essere un concetto multiscalare, riferibile sia ad un territorio che ad un singolo oggetto d’uso.
L’evoluzione del concetto di accessibilità è andata di pari passo anche con l’evoluzione normativa ad essa collegata, riflesso della mutazione della percezione sociale rispetto ai temi relativi alla disabilità e alla fruibilità dell’ambiente.
La Costituzione Italiana entrata in vigore il 1° gennaio 1948, all’Art. 3 sancisce che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Questa importantissima determinazione costituisce uno dei princìpi fondamentali del nostro Stato, ed è il primo riferimento normativo che, seppur indirettamente, può essere ricondotto ai temi dell’accessibilità e dell’inclusione.
I problemi riguardo alla progettazione, definita secondo la terminologia del periodo ‘per invalidi’, hanno iniziato ad essere discussi in Italia durante la Conferenza Internazionale di Stresa del 1965, organizzata da ANMIL – Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro e AIAS – Associazione Italiana per l’Assistenza agli Spastici: lo scopo era quello di sensibilizzare le autorità competenti, le persone che si occupavano di architettura, di città e di invalidità, e anche l’opinione pubblica internazionale sulle difficoltà che l’invalido in carrozzina incontra nell’inserimento attivo all’interno della vita sociale. In quel periodo nacque nel nostro Paese la sensibilità per il tema delle ‘barriere architettoniche’. Nel 1971, con la prima legge cogente in materia di progettazione architettonica per disabili, viene ribadito il diritto di accesso ai luoghi pubblici o aperti al pubblico “per i minorati”, oltre che l’obbligo di riservare spazi appositi per utenti in sedia a rotelle all’interno di tutti i luoghi dove si svolgano pubbliche manifestazioni o spettacoli. Il concetto di accessibilità inizia qui a unire la componente fisica-ambientale a quella socio-culturale, anche se quest’ultima viene perseguita attraverso una progettazione ‘speciale’, ovvero la realizzazione di spazi particolari pensati per determinate categorie di utenti.
Questa concezione verrà successivamente superata dalla Carta di Barcellona del 1995, redatta in occasione del Congresso Europeo “La Città e le persone Handicappate”. In essa vengono riaffermati i concetti di dignità e valore della persona, oltre a quello di ‘incapacità’, che riguardano tutta la società, alla quale è richiesto l’impegno nel miglioramento delle condizioni per il pieno sviluppo dell’individuo. Viene perciò richiesta alle amministrazioni la progettazione dei servizi e delle strutture in modo tale che essi possano accogliere le esigenze di tutta la popolazione, così da poter escludere un ricorso ad “elementi specifici per le ‘persone handicappate”.
Di pari passo con il diverso approccio socio-culturale è cambiata anche la terminologia presente nelle norme, soprattutto per quanto riguarda i vocaboli usati con connotazione negativa nei primi provvedimenti legislativi: da ‘spastici’, ‘persone impedite o minorate’ (Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 4809/1968), ‘minorati fisici, mutilati e invalidi civili’ (D.P.R. n. 384/1978), si è passati a ‘individui con ridotte capacità motorie, disabili, categorie svantaggiate di utenti’. Nel corso degli anni cambieranno anche le necessità alle quali le prescrizioni legislative vogliono far fronte: dal voler eliminare le sole barriere architettoniche e le fonti di pericolo all’occuparsi anche di barriere psicologiche, per garantire l’autonomia a soggetti con difficoltà motoria, sensoriale, psichica, di natura permanente o temporanea, tenendo conto delle variazioni delle esigenze individuali e delle diverse caratteristiche anatomiche, fisiologiche, senso-percettive delle persone.
Nel 1989 la legislazione italiana ha esteso il campo delle disposizioni normative, allargandolo a tutto il comparto dell’edilizia privata; i tre livelli di qualità dello spazio, ‘accessibilità’, ‘visitabilità’ ed ‘adattabilità’, sono stati concepiti in modo da poter garantire, a seconda del luogo, del tipo di edificio e dell’intervento da effettuare, una piena fruibilità dello spazio costruito, per il comfort di tutti i cittadini. Parallelamente ha iniziato a diffondersi, più in ambito tecnico che in ambito amministrativo, la consapevolezza di un’accessibilità intesa come grande valore collettivo, che deve caratterizzare tutte le politiche delle amministrazioni pubbliche ed esigere la cooperazione tra tutti coloro che intervengono nei processi di trasformazione degli habitat.
Per legare le prescrizioni normative riguardanti il tema accessibilità ai programmi amministrativi di governo del territorio si è fatto uso di alcuni strumenti innovativi di pianificazione degli interventi: è il caso del P.E.B.A. – Piano per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche (1986) e i P.A.U. – Piano per l’Accessibilità Urbana, strumento non ancora normato a livello nazionale, ma presente in alcuni testi legislativi a livello regionale, e considerato una naturale evoluzione del P.E.B.A..
Il cosiddetto ‘luogo accessibile’ è passato, nella percezione collettiva e nel dibattito sociale, dall’essere un luogo ‘privo di barriere’ o ‘conforme alle norme’ a ‘luogo inclusivo’ capace di accogliere, in condizioni di comfort e sicurezza, persone con diverse capacità e diseguali gradi di libertà. In questo modo nei criteri di accessibilità di un luogo vengono contemplate tutte le categorie di utenti: chi ha una qualche menomazione fisica, sensoriale o cognitiva, permanente o temporanea; chi invece è in piena salute, ma può temporaneamente trovarsi in situazioni di disagio per la non conoscenza di un luogo o perché impedito nei movimenti, ad esempio da bagagli o passeggini; bambini, anziani e donne incinte, definiti come ‘categorie deboli’. Ecco perché nelle metodologie progettuali di moderna concezione, oltre che motoria-fisica, sensoriale, percettiva e cognitiva, l’accessibilità dei luoghi è declinata anche come culturale, economica e afferente alla mobilità e al fattore di tempo. La presenza di una condizione di disabilità è perciò solo una delle eventualità da considerare nel momento in cui l’obiettivo sia quello di eliminare le corrispettive barriere e realizzare edifici, prodotti e ambienti che siano accessibili a tutti.
Nel computo delle “barriere” comincia a rientrare anche il “fattore tempo”, che può di per sé rendere un luogo inaccessibile: ad esempio il protrarsi di un’attività che comporta un elevato dispendio di energia per una persona anziana o con disabilità, come lo stare in piedi in fila, può far sì che una determinata fascia di utenti rinunci ad usufruire di uno spazio. Anche le attuali norme tecniche che riguardano le barriere architettoniche, associate in maniera quasi esclusiva alla disabilità motoria, non prendono quasi mai in considerazione la variabile temporale.
A questo si può collegare il concetto di ‘benessere ambientale’, ossia uno stato psicologico che si prova in presenza di luoghi percepiti come facilmente fruibili, sicuri e piacevoli, luoghi che sono comprensibili e interpretabili senza il pericolo di perdersi, in cui si riconosca facilmente come gli oggetti che li compongono stiano insieme. Garantire la fruibilità di uno spazio perciò non è solo assicurare il pieno movimento e accessibilità all’interno di esso, ma è anche far si che l’utente possa fisicamente e percettivamente godere appieno dello stesso. In questo caso, la fruibilità urbana può essere efficacemente migliorata con il contributo dei princìpi dell’ergonomia.
L’ergonomia diventa strategica quando viene utilizzata come guida per tutte le fasi del processo progettuale perché garantisce la continua verifica della rispondenza del prodotto ai diversi profili di esigenze degli utenti reali e contribuisce, con la filosofia del Design for All, al raggiungimento di un progetto ‘per tutti’, ossia che risponda alle esigenze dell’individuo. L’approccio olistico, prima dell’Universal Design e poi del Design for All, ha fatto sì che, dalla seconda metà degli Anni ’90, la cultura progettuale europea facesse un passo in avanti. Il concetto di progetti speciali per utenze speciali è stato superato con la proposta di un ‘design sostenibile’ che ha compensato le carenze di un progetto standard e i limiti di un progetto speciale e ha ripreso i postulati proposti dall’ergonomia. Questa idea ha una forte valenza sociale, in quanto si prefigge l’obiettivo progettuale di osservare le diversità dell’uomo, l’evolvere delle sue esigenze nel corso della vita e la verifica della rispondenza dei diversi prodotti alle richieste del mondo reale. Per fare ciò, ogni ambiente, prodotto, sistema progettato o ripensato deve poter essere fruibile dal maggior numero di persone possibile, e gli spazi devono essere progettati pensando alle diverse abilità ed esigenze dell’utente, in modo tale da poter essere accessibili in modo autonomo.
Una progettazione di orientamento inclusivo di uno spazio costruito pubblico, sia esso interno od esterno, può generare, oltre che benefici di tipo economico e sociale, anche una strategia che ben si sposa con il concetto di accessibilità delle città: quella di ricerca della vitalità urbana. Solo in questi ultimi anni si comincia a comprendere quali siano i potenziali economici dei progetti che si occupano di accessibilità. Da questo punto di vista, i due campi di azione più interessanti sono il cosiddetto ‘turismo accessibile’ e lo sviluppo di nuove tecnologie al servizio di tutte le tipologie di utenti. Da un lato la promozione del patrimonio culturale e il miglioramento delle strutture ricettive apre al settore turistico una parte di mercato finora poco considerata, ma sempre più importante in termini quantitativi: quella dell’accoglienza di persone con disabilità; dall’altro lo sviluppo di piattaforme web e applicazioni utilizzabili anche da utenti con deficit cognitivi fa sì che anche la comunicazione diventi veicolo di inclusione sociale.
Oltre agli spazi pubblici e privati di tipo ‘reale’, l’accessibilità riguarda anche gli spazi virtuali, che dall’inizio del nuovo millennio in poi oggi stanno assumendo un’importanza forse maggiore dei primi. Nel vocabolario dell’Informatica, Accessibilità è la “proprietà che devono possedere le applicazioni per essere utilizzate con facilità dagli utenti, in particolare da coloro che si trovano in condizioni di disabilità o di svantaggio”. Quindi anche la comunicazione, in questo caso nel mondo virtuale, rientra nei parametri dell’accessibilità e può costituirne una barriera, soprattutto in riferimento all’accesso all’informazione.
I dati raccolti da tutte le fonti informative che comprendono lo spazio urbano e chi lo abita, organizzati ed utilizzati in modo adeguato, possono essere utili per ripensare gli strumenti dell’urbanistica. La diffusione di social e web applications ha cambiato profondamente il modo di vivere lo spazio pubblico, diventando al contempo un fattore di perdita di centralità per i luoghi di incontro, ora molto più attivi nel mondo virtuale, ma anche veicolo per la scoperta o ri-scoperta di luoghi dimenticati e per la creazione di una consapevolezza collettiva riguardo al bene pubblico e alla sua cura e conservazione per le generazioni future. Nel futuro della nostra società iper-connessa e delle smart cities sarà fondamentale trovare il giusto compromesso tra tecnologia, informazione e fisicità dei luoghi, per continuare ad utilizzare lo spazio pubblico come luogo accessibile di aggregazione ‘reale’ e non solo come ritrovo estemporaneo individuato e comunicato tramite la rete ‘virtuale’.