di Ingrid Veneroso – L’associazione fra il termine centri storici e siti del Patrimonio Mondiale viene abbastanza naturale: siamo nel contesto europeo uno dei Paesi che ne ha “conservati” di più e, mai come in questa cornice intra-pandemico, l’attenzione riservata al loro ruolo diventa indispensabile.
Facendo riferimento alla prima definizione ufficiale di centro storico (risalente al testo prodotto nel 1964 dalla Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e del paesaggio) come “quelle strutture insediative urbane che costituiscono unità culturale o la parte originaria e autentica di insediamenti, e testimoniano i caratteri di una viva cultura urbana…”, è semplice riportare il principio al nostro recentissimo vissuto, nel quale poter vivere di nuovo “la piazza” come luogo di comunità è di nuovo sentito come un bisogno primario, al tempo stesso un’azione di riconoscimento culturale e di partecipazione sociale.
Appare quindi sempre più forte la necessità di parlare di azioni di rigenerazione urbana nei centri storici, tema che ha trovato proprio nei giorni scorsi uno spazio di confronto molto interessante all’interno delle attività del Programma delle città storiche Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, che celebra il prossimo mese il suo forum. Lunedì 17 e martedì 18, esperti di urbanistica, site managers, policy makers e amministratori si sono confrontati sul tema del “Living with World Heritage: Adaptive Reuse and Regeneration for Sustainable Cities”, partendo proprio dal tessuto dei centri storici iscritti alla lista del Patrimonio Mondiale.
Il doppio ruolo giocato dal “centro storico”, quale luogo di residenza e centro di servizi e commercio, ha reso nel tempo questa parte di città particolarmente sensibile ai mutamenti che hanno formato o stanno formando l’attuale territorio urbano, con tutte le implicazioni che questi hanno portato, coinvolgendo ogni aspetto del vivere quotidiano nella città. L’aumento della popolazione urbana, le mutate esigenze collettive, sociali, economiche e culturali, nonché le modificazioni intervenute nelle modalità di utilizzo degli spazi abitativi e lavorativi – nonché il fenomeno del turismo culturale di massa che si è sviluppato negli ultimi anni – hanno spostato i residenti verso gli ambienti periferici, svuotando i centri storici dei suoi contenuti pregnanti e della sua molteplice funzionalità, portando in alcuni casi uno spopolamento da parte delle comunità cittadine, il che segna la storia stessa della città storica. La gentrificazione dei nostri centri storici porta irrimediabilmente a fenomeni di degrado urbano, frammentazione sociale, impoverimento culturale. L’emergenza sanitaria del Covid19 ha evidenziato maggiormente questa condizione.
E’ su questo stato di cose che bisogna agire e un cambio di paradigma, portato da una “lettura contemporanea” che viene data all’Eccezionale Valore Universale che caratterizza i centri storici iscritti alla lista dell’UNESCO, come ha spiegato la direttrice del Centro del Patrimonio Mondiale Jyoti Hosagrahar. Questa lettura contemporanea trasla il principio di conservazione dal mantenimento dell’integrità degli edifici, dei monumenti, allo sforzo di preservazione della comunità urbana, che può essere l’unico driver per la rigenerazione urbana della quale parliamo.
Affinché questo processo sia efficace nel tempo sono diversi i punti su cui esso deve poggiare: innanzitutto, la rigenerazione urbana deve essere pianificata a livello nazionale e locale, abbracciando tutti gli strumenti della pianificazione territoriale, urbana, economica, infrastrutturale.
In secondo luogo, deve coinvolgere la comunità sia in termini di partecipazione attiva e co-progettazione che in quelli di utilizzo delle risorse locali – dalle materie prime alle professionalità alle aziende in loco – per poter ambire davvero ad una condizione di sostenibilità ambientale, economica e sociale.
Altri strumenti per realizzare una rigenerazione urbana coerente con i principi dell’UNESCO, ma anche della Convenzione di Faro e della nostra Costituzione, vengono individuati nel ripensamento degli spazi urbani, intesi sia come spazi pieni che spazi vuoti, riorganizzati per il benessere della comunità residente; un approccio sistematico alla cultura; una intensa attività di capacity building – anche attraverso il mezzo digitale, che se bene infrastrutturato diventa una risorsa e non un motivo di divide sociale; un ripensamento delle attività turistiche in un’ottica di qualità dell’offerta – e non solo di quantità di presenze – che porti davvero beneficio a lungo termine alle comunità residenti. Tutto questo si può realizzare solo in una cornice politica ampia, che promuova questo approccio e sostenga una pianificazione olistica, complessiva, che smetta l’impostazione frammentaria delle policy contemporanee e accetti l’idea di una proiezione di risultati a lungo termine, non solo in termini di propaganda/riconoscimento elettorale. Progettando un simile processo, possiamo avere la “vision” della città che i cittadini vogliono vivere e curare.
Da questo osservatorio privilegiato che è la Rivista Siti, credo che comunque si voglia definire il centro storico, qualunque sia l’immagine che in ognuno di noi il termine stesso evoca, è necessario che lo si consideri con la più ampia visione possibile: un bene culturale, economico e sociale, un unicum nel quale – integrando i diversi fattori per definire una coerente e corretta soluzione – sia possibile attuare interventi operativi di carattere olistico e, possibilmente, ad alto grado di replicabilità.
In questa ottica, l’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale sta lavorando a diversi progetti, in collaborazione con la Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO, le UNESCO Chairs e il centro del Patrimonio Mondiale di Parigi, affinché sia possibile contribuire a questo necessario cambio di passo. Il punto, e questo è fondamentale, è che a livello politico e decisionale i siti e i beni del patrimonio mondiale in Italia siano chiamati a partecipare alla progettazione del PNRR.