In attesa della Conferenza Nazionale dell’ Impresa Culturale, abbiamo intervistato Giacomo Bosi – docente di Diritto Commerciale all’Università di Trento e autore del saggio “L’impresa culturale – Diritto ed economia delle attività creative” edito da Il Mulino, sulle perculiarità delle imprese culturali del nostro paese.
Quale può essere la definizione più esatta, calzante dal punto di vista economico dell’impresa culturale? Cosa fa, e come? Quali sono i focus e i target di un’impresa culturale?
Di «impresa culturale» esistono nozioni diverse e svariate classificazioni. Io ne prediligo una ampia e indifferenziata, incentrata sul ruolo della creatività, sia artistica sia innovativa. Infatti la creatività innesca l’innovazione, e la dimensione collettiva e sociale entro la quale si realizza tale trasmissione di idee originali risulta decisiva con riguardo ad entrambi i versanti: in tutti i casi la creatività è il portato di un’esperienza di gruppo e ha bisogno di un’adeguata organizzazione. Seguo in questo l’impostazione del maestro Walter Santagata, e mi riferisco unitamente alle imprese culturali e creative. E prendo in considerazione l’impresa culturale quale impresa, anzitutto: ossia come mezzo per la produzione di beni e servizi, che può costituirsi in forma societaria, di cui si servano persone creative, per realizzare attività destinate al mercato, utilizzando modelli organizzativi e forme di produzione che devono essere in grado di autosostenersi. Autosostenersi economicamente è infatti la precondizione per poter essere libere, e produrre un’offerta culturale non conformista, appagante, e in grado di stimolare ulteriori realizzazioni creative.
Dal punto di vista del diritto d’impresa, cosa manca all’ordinamento italiano per garantire lo sviluppo dell’impresa culturale così intesa?
In astratto, per regolare le attività imprenditoriali di carattere creativo, si possono seguire tre approcci: (1) ricorrere a forme aggregative di natura contrattuale, utili affinché gli operatori culturali facciano rete a costi relativamente contenuti; (2) realizzare strutture organizzative centrate sulle esigenze operative delle imprese culturali, evitando però di costringerle ad avvalersi necessariamente di figure giuridiche specifiche; (3) introdurre uno statuto di diritto speciale, ossia una disciplina esaustiva e autosufficiente a cui le imprese creative possano (o debbano) aderire. In Italia abbiamo battuto, in momenti diversi, strade diverse, ma con scarsa convinzione nel corso del tempo, e con non pochi ripensamenti. Enucleare uno statuto autonomo di impresa culturale – progetto attualmente discusso in Parlamento – non è detto costituisca l’opzione più efficiente, per quanto sia senz’altro apprezzabile interrogarsi sul come eventualmente farlo al meglio. Non lo è di certo se lo statuto specifico persegua scopi di ordine soprattutto agevolativo. L’esperienza insegna, infatti, che tipi speciali per imprese speciali spesso impongono costi di governo dell’impresa non indifferenti che rischiano di vanificare l’eventuale risparmio finanziario, e spesso impongono una rigidità organizzativa e operativa penalizzante che finisce per deprimere in partenza le propensioni creative e relazionali.
A mio modo di vedere è necessario riconoscere quali mezzi il diritto dell’impresa metta attualmente a disposizione per favorire la gestione di attività tipicamente relazionali, che si avvalgono di rapporti reticolari, e che hanno contenuti meritori e sociali. Nel mio libro cerco di presentare i pro e i contro degli strumenti giuridici a cui è possibile fare ricorso, dando spazio soprattutto ai pregi dei mezzi di autoregolazione, e ne integro l’analisi all’interno di modelli organizzativi di portata più ampia, ossia interimprenditoriale. Perché il realizzare beni creativi, se ciò costituisca il fine di un’attività d’impresa, richiede sempre collaborazione e coordinamento tra più soggetti (pubblici e privati, individuali e societari, for profit e nonprofit). Insomma, io credo che occorra spostare l’attenzione dal piano individuale al piano reticolare, o quantomeno considerarli entrambi e in termini complementari, e nei due casi individuare le soluzioni organizzative che consentano agli imprenditori creativi di ridurre al minimo i propri costi di transazione.
Gli strumenti esistono già ora; ma, in primo luogo, non è semplice metterli a fuoco nello scenario complesso e stratificato del diritto commerciale italiano. In secondo luogo, bisogna saperli modulare, plasmandoli sulla specificità di ogni impresa, in modo tale che la veste giuridica che ognuno indossi sia al contempo un abito in cui riconoscersi, un mezzo comodo per svolgere attività d’impresa, e un segno distintivo nei confronti dei propri partner. In questa prospettiva propongo modelli tipicamente «riflessivi», ossia che riflettano le peculiarità dei bisogni e degli apporti delle imprese innovative in genere, ma produttrici di beni specialmente meritori e comuni.
Quando si pensa alla figura di imprenditore, solitamente si immagina qualcuno che metta in gioco le proprie capacità, professionali, economiche e personali in un progetto che ha un fine economico e – quindi – sociale. È una visione corretta nell’ambito dell’impresa culturale? Perché ci si aspetta invece, o così percepisce l’immaginario comune, che l’estensione semantica dell’aggettivo «culturale» presuma un contributo/ausilio pubblico?
Le agevolazioni, e i finanziamenti in genere, sono preziosi e non di rado indispensabili. Ma la loro importanza non può fare passare in secondo piano la necessità che gli operatori culturali sappiano anzitutto organizzare adeguatamente la propria impresa, né possono condizionarne le scelte iniziali di autoregolazione: così facendo, infatti, non si va lontano. Questo indipendentemente dal fatto che le imprese culturali realizzino le proprie attività in ambiti distrettuali, dinamici e interconnessi, o agiscano più isolatamente e/o a contatto necessario con istituzioni culturali. Quello fondazionale e quello distrettuale rappresentano, nella tradizione dello sviluppo culturale italiano, modelli differenti, «verticale» l’uno e «orizzontale» l’altro, che nel tempo si sono reciprocamente contaminati e che nel mio libro analizzo cercando di rappresentare, di entrambi, specificità, pregi e limiti. Spiego anche come sia anche possibile integrarli e farli coesistere più efficacemente di quanto oggi avvenga. Ma la scelta di adottare una data veste giuridica, e di instaurare relazioni di un certo tipo anziché di un altro, può e dev’essere consapevole. Il che significa che occorre conoscere gli istituti e gli strumenti (proprietari, organizzativi e operativi) che il diritto commerciale mette a disposizione. Non solo: grazie a un uso accorto delle tecniche regolative è possibile dare centralità alla stessa valenza sociale e meritoria dei beni prodotti, facendo in modo che l’eccezionalità culturale delle imprese creative non esista solo nella misura in cui le sovvenzioni pubbliche ne consentano una manifestazione episodica, ma si sostanzi nell’organizzazione d’impresa, emerga anche sul piano della disciplina privatistica, e divenga realtà quotidiana e continuativa di relazioni contrattuali e societarie sia collaborative, sia competitive. L’eccezionalità culturale, insomma, non richiede soluzioni eccezionali, ma un’eccezionale capacità di servirsi dei mezzi ordinari di gestione delle imprese.
L’esperienza italiana come si pone rispetto alle esperienze di altre Nazioni?
Premesso che l’approccio integrato (impresa culturale e creativa) è condiviso, il diritto dell’impresa italiano, da sempre ricco e raffinato come pochi altri, si è rinnovato straordinariamente, negli ultimi decenni, sia sul piano contrattuale sia sul piano societario della propria disciplina, e offre una molteplicità di soluzioni trasversali agli ambiti pubblico/privato, nonprofit/for profit, personalistico/capitalistico.
Io tratto in larga misura di soluzioni pluripartecipative e multistakeholder, ma adottabili, appunto, non solo da imprese sociali o da enti non lucrativi. Certo, dal momento che i cambiamenti intervenuti non sono stati sempre coerenti, lo scenario giuridico è ampio, ma anche complesso da decifrare. I modelli di disciplina sono spesso modulari e transtipici, e vanno combinati con cognizione di causa. Il fatto che non esista ancora un corpo di studi giuridici dedicato specialmente alla regolazione delle imprese culturali, non aiuta. Cerco perciò di fare un primo passo in questo senso, per dare un contributo giuridico e stimolare un dibattito non inutilmente replicativo o autoreferenziale, e soprattutto interdisciplinare. Proprio da queste constatazioni, infatti, è sorto il mio desiderio di provare a fare chiarezza, affrontando il versante economico assieme a quello giuridico, e rappresentando paradigmi regolativi applicabili sia dall’impresa singolarmente considerata (sia essa o meno costituita in forma societaria; sia essa lucrativa o meno; sia essa pubblica o privata), sia da reti di imprese che facciano degli apporti cognitivi e creativi la propria materia prima.