Si terrà a L’Aquila mercoledì 5 luglio la Conferenza Nazionale dell’Impresa Culturale, curata e promossa da Federculture in collaborazione con numerosi partner, istituzioni e aziende. Al centro della giornata di lavori l’Impresa Culturale in Italia, la necessità di creare una “cultura della gestione” e del “fare impresa” con finalità di pubblica fruizione, nell’approccio alla valorizzazione e gestione delle risorse identitarie dei territori.
Come si definisce un’Impresa Culturale, cosa fa, che “numeri” ha il comparto, quali sono le criticità a cui vanno incontro questo tipo di attività? Per cominciare al meglio il nostro iter, riprendiamo dei brani di un approfondimento proposto qualche anno fa da Il Sole24ore, “Le industrie culturali e creative e l’Italia: una potenzialità inespressa su cui scommettere” di Pier Luigi Sacco (e se volete sapere chi è il prof. Sacco potete scoprirlo qui).
“Cosa intendiamo per cultura?Facciamo un po’ di ordine. Uno dei motivi per cui si generano più spesso malintesi intorno all’impatto economico della cultura è che all’interno della sfera culturale esistono molte sotto‐sfere diverse, alcune delle quali sono organizzate in modo industriale e sono in grado di generare strutturalmente profitti, mentre altre non lo sono.
Poiché le aree non organizzate industrialmente, che sono anche le più antiche come le arti visive, lo spettacolo dal vivo e il patrimonio storico‐artistico, sono spesso considerate le forme di espressione culturale per antonomasia, diventa naturale concludere che siccome tali aree producono pochi profitti o non ne producono affatto essendo invece bisognose di trasferimenti per operare, ciò debba necessariamente valere per tutte le forme di produzione culturale. Un’altra distinzione importante e spesso sottovalutata, che è a sua volta all’origine di molti malintesi, è quella tra cultura e creatività. La sfera culturale ha una particolarità: quella di produrre contenuti che non hanno altra finalità che di essere esperiti ed apprezzati in quanto tali, senza finalità ulteriori: vedere un film, ascoltare un pezzo musicale, leggere un romanzo.
La sfera creativa, al contrario, applica i contenuti culturali ad ambiti di esperienza in cui esistono altre, importanti finalità: un oggetto di design potrà essere molto originale ma allo stesso tempo, se è una sedia o un laptop, deve poter permettere all’utente di sedersi comodamente o di elaborare dati con rapidità, ergonomia ed efficacia.
Il rapporto tra cultura e creatività assomiglia a quello tra ricerca di base ed applicata: nel primo caso si è liberi di porsi e di affrontare i problemi più fantasiosi e interessanti prescindendo in larga misura da qualunque considerazione di rilevanza pratica, mentre nel secondo sono proprio le istanze di rilevanza pratica a dettare l’agenda della ricerca e le relative priorità. E così come nel caso della dialettica ricerca di base‐applicata, la cultura in genere produce un valore aggiunto relativamente limitato rispetto alla creatività, ma d’altra parte molto del rilevante valore aggiunto prodotto dalla creatività è il risultato di contenuti e stimoli provenienti dalla sfera culturale. La creatività è generalmente più redditizia in termini economici, ma gran parte di essa avrebbe molta meno capacità di generare valore economico se non potesse attingere al vasto serbatoio della cultura. Sarebbe quindi alquanto miope distinguere, come a volte si è fatto recentemente nei paesi più sensibili al richiamo dell’industria culturale e creativa, tra settori redditizi e settori meno redditizi o addirittura in perdita: sono tutti componenti di uno stesso ecosistema creativo (Howkins, 2010) e, proprio come negli ecosistemi, l’estinzione o la messa in pericolo di una specie apparentemente trascurabile può mettere a rischio la sopravvivenza delle specie più grandi e apparentemente forti e importanti, che magari sono responsabili della maggior parte della biomassa.
La creatività, in ultima analisi, produce quindi un impatto economico generalmente molto superiore a quello della cultura, ma d’altra parte senza la cultura la creatività perderebbe molte delle sue capacità migliori di generare valore economico. In particolare, sottovalutare i settori che producono poco fatturato ma hanno una enorme capacità di generazione di contenuti culturali come appunto i settori non industriali (arti visive, spettacolo dal vivo, patrimonio storico‐artistico) costituisce un errore strategico grave le cui conseguenze si ripercuotono su tutto il sistema.
Dobbiamo quindi distinguere sette sotto‐aree, diverse per il loro orientamento più o meno industriale e per il peso relativo che i contenuti creativi hanno nella loro catena del valore. E’ su questo sistema a cerchi concentrici (si veda anche Throsby, 2008), e ricco di differenziazioni interne, che si basa la sfera della produzione culturale e creativa nella sua interezza.
Più precisamente:
1. il nucleo non industriale (core), che si compone dei settori ad alta densità di contenuti creativi ma che per la loro natura non possono essere organizzati industrialmente, e sono fondati sulla produzione di oggetti ed esperienze unici o comunque limitatamente riproducibili: arti visive, spettacolo dal vivo, patrimonio o storico‐artistico;
2. le industrie culturali, che hanno appunto una organizzazione industriale pur mantenendo una alta densità di contenuti creativi, e sono quindi basati sulla produzione di un numero potenzialmente illimitato di copie identiche e del tutto interscambiabili: editoria, musica, cinema, radio‐televisione, videogiochi;
3. le industrie creative, che mantengono una organizzazione industriale ma presentano una densità di contenuti creativi relativamente minore, nel senso che rispondono anche a imperativi funzionali non‐culturali: architettura, design (inclusi l’artigianato, la moda e, in prospettiva, il food design), comunicazione;
4. le piattaforme digitali di contenuti, che pur mantenendo una organizzazione parzialmente industriale contengono anche vaste aree non intermediate dal mercato e basate su una economia di condivisione e di scambio volontario, densa di contenuti creativi con una significativa componente di contenuti generati dagli utenti;
5. i settori complementari: educazione, turismo culturale, information technology, ovvero settori che di fatto non appartengono alla sfera culturale e creativa in senso stretto ma presentano forti complementarità strategiche con questi ultimi;
6. la experience economy, ovvero tutti quei settori non‐culturali nei quali tuttavia i contenuti creativi stanno sviluppando una penetrazione sempre più pervasiva, e che ormai comprende pressoché tutti i consumer goods e persino una componente crescente di beni strumentali (una tendenza che non potrà che aumentare con il crescente grado di dotazione computazionale degli oggetti di prossima generazione).
7. La scienza e la tecnologia, che funzionano secondo regole proprie e parzialmente diverse da quelle della produzione culturale, ma che ancora una volta presentano con essa delle forti complementarità, soprattutto in vista della crescente pervasività di uso di piattaforme tecnologiche sempre più sofisticate in molte forme di produzione artistica (arti visive, performance, cinema, musica elettronica, ecc.).
Come si vede, il confine tra sfera culturale e non‐culturale è complesso e sfumato, anche se convenzionalmente, nelle misurazioni del valore aggiunto culturale e creativo si considerano soltanto le prime quattro aree, tenendo conto delle oggettive difficoltà di misurazione del valore aggiunto delle piattaforme digitali che pone problemi tecnici non ancora del tutto risolti. In un certo senso, come si è detto sopra, se volessimo tenere conto di tutti i settori nei quali la cultura gioca un ruolo percepibile nella formazione del valore economico, soprattutto attraverso i meccanismi della experience economy (Pine & Gilmore, 2011), non potremmo che dedurne che l’intera economia si sta ‘culturalizzando’ e che i modelli di consumo emergenti (e ben esemplificati dalle tesi della modernità liquida di Zygmunt Bauman) assomigliano sempre di più ai modelli di accesso alle esperienze culturali (Bauman, 2011). Si può quindi capire quindi quanto miope e fuori dal tempo sia l’idea che la cultura conti poco economicamente, e tanto più ciò sarà vero negli anni che verranno.“
Il professor Sacco – il cui articolo integrale è scaricabile qui – aveva previsto la crescita del comparto, confermata due giorni fa dal rapporto 2017 della Fondazione Symbola e Unioncamere, secondo il quale l’anno scorso il comparto ha chiuso con il segno più, producendo l’1,8% di valore aggiunto rispetto al 2015, al quale ha corrisposto un 1,5% di crescita dell’occupazione. Tradotto in valori assoluti, nel 2016 la cultura ha generato 89,9 miliardi di euro, che, considerando l’indotto, hanno messo in moto 250 miliardi, equivalenti al 16,7% del valore aggiunto nazionale. Numeri che hanno dato lavoro a 1,5 milioni di persone.
Symbola ha censito 414.000 imprese, che costituiscono il 6,8% delle attività economiche del Paese. Le Imprese Culturali impiegano circa 492.000 e muovono 33 miliardi di euro di valore aggiunto prodotti e l’impiego di 492mila persone, le Industrie Creative fatturano 12,9 miliardi e occupano circa 253.000 addetti. Le performing arts e le arti visive si assestano su 7,2 miliardi e 129.000 posti di lavoro, le aziende che si occupano di conservazione e valorizzazione del patrimonio artistico sfondano il tetto dei 3 miliardi e impiegano 53.000 persone. In trend positivo anche le “imprese crative-driven”, con 33,5 miliardi di valore aggiunto e 568.000 impiegati. Capitale economica del comparto è la provincia di Roma con il 10%, seguita da Milano, al 9,9% e Torino, con l’8,6 per cento.
Numeri importanti, eppure resta evidente uno scollamento fra l’impresa culturale e il sistema imprenditoriale, con particolare riferimento alle istituzioni bancarie e creditizie. Di questo si è parlato nel dicembre scorso nell’ambito del convegno romano “CARMINA NON DANT PANEM? -opportunità di acceso al credito e di finanziamento per le imprese culturali e creative”, tenutosi nella sede I-COM in occasione del lancio dello strumento di garanzia sul credito per i settori culturale e creativo che la Commissione europea, attraverso il FEI, ha messo in atto per adempiere all’art. 14 del Programma Europa creativa. Nel corso del convegno (gli atti del Convegno si trovano qui), esperti in campo finanziario ed economico, nonché rappresentanti di istituzioni e del mondo della cultura si sono confrontati sulla necessità di contribuire ad approccio costruttivo e propositivo sulle peculiarità di un comparto molto variegato, indagando sui fattori critici che ostacolano le relazioni tra il mondo dell’impresa culturale e dell’impresa creditizia e anche sulle grandi potenzialità in termini di crescita e sviluppo da un dialogo fondato su una maggiore comprensione reciproca e dall’adozione di pratiche innovative e strumenti più mirati ed efficaci rispondenti agli specifici fabbisogni degli operatori.
La Conferenza Nazionale dell’Impresa Culturale si propone, inoltre, anche come il primo appuntamento nazionale nel quale far emergere tale consapevolezza e verificare l’opportunità di affermare uno ‘Statuto’ dell’impresa culturale orientata alla fruizione pubblica delle risorse identitarie del territorio. L’obiettivo è, dunque, attivare una interlocuzione con il Paese e con i decisori politici, a tutti i livelli, in merito al ruolo dell’impresa culturale e alla sua rilevanza nel creare valore sociale ed economico per la collettività e di porre le condizioni per lo sviluppo dei territori.
A dimostrazione della rilevanza dell’iniziativa, all’Aquila si sono dati appuntamento anche gli Assessori alla cultura e al turismo delle Regioni e dei Comuni italiani. Inoltre, al fine di evidenziare come la gestione sia il consapevole punto di arrivo di una chiara visione dei processi di sviluppo territoriale, in occasione della Conferenza sarà, infatti, lanciata la Scuola di Governo per lo sviluppo locale a base culturale.