Il 21 febbraio si celebra in tutto il mondo la giornata dedicata alla Lingua Madre, istituita dall’UNESCO nel 1999 per promuovere la diversità linguistica e culturale e riconosciuta dall’Assemblea dell’ONU nel 2007 con l’obiettivo di difendere e preservare le diversità linguistiche nel contesto odierno.
Questa data è stata dedicato alla lingua madre perché quel giorno del 1952 un gruppo di studenti di lingua Bangla scese in piazza per difendere l’uso della propria lingua che il governo Pakistano, a cui allora il Bangladesh era annesso, voleva sostituire con l’urdu. Per reprimere la manifestazione vennero impiegate le forze dell’ordine che uccisero 22 studenti. Da questo tragico evento, che per il Bangladesh è diventato festa nazionale, cominciò una lunga lotta di liberazione che si concluse con l’indipendenza del 26 marzo 1971.
Il legame profondo che esiste tra gli individui e le comunità e il loro idioma materno è inscindibile e ricco di significati antropologici, storici, cognitivi, scientifici, sociali. Ogni lingua madre, infatti, è frutto di una complessa storia che spesso nemmeno i suoi stessi utilizzatori conoscono, che parte dalle radici della conoscenza che quella cultura, quella determinata civiltà, di come essa si è rapportata al mondo fin dai suoi albori, conservando intatte le strutture stesse della sua crescita intellettuale e sociale.
Il tema della lingua madre ci tocca da vicino, oggi più che in passato, dal momento che la mobilità dei popoli – vuoi per i processi di migrazione, vuoi per la possibilità di studiare e lavorare all’estero – porta l’allontanamento di gruppi consistenti dal loro luogo di origine e crea il “meltin’ pot” linguistico, nel quale ogni individuo porta – come un regalo – la propria lingua madre in una comunità nella quale imparerà ad esprimersi nella lingua del Paese che lo ospita. Un dualismo che molti chiamano bilinguismo, ma che in realtà resta una forma di separazione, una discriminante che, in questo contesto, è funzionale alla preservazione di forme linguistiche che se non praticate andrebbero perdute.
La varietà linguistica del nostro Paese si sta ampliando e accanto ai dialetti regionali e locali, più o meno praticati, ci sono le lingue delle minoranze, che sono tutelate con apposita normativa, e poi ci sono poi le lingue degli immigrati, in uso nello scambio famigliare e tra le generazioni. Queste ultime che sono quasi sempre ignorate, rimosse, svalorizzate.
Ma quali rapporti profondi – di concorrenza, conflitto, complementarietà, integrazione – si stabiliscono tra i due codici, tra i diversi significati e i significanti? E se la lingua madre diventa improvvisamente muta e una nuova lingua sostituisce quella originaria, quali cambiamenti e perdite si verificano nella vita emotiva, soprattutto dei bambini?
La “carta di identità” linguistica dei bambini e dei ragazzi che hanno una storia di migrazione è estremamente diversificata dal momento che 196 sono i Paesi di provenienza rilevati dal MIUR. Il livello di conoscenza della/e lingua/e di origine dipende da fattori diversi: l’età, il luogo di nascita, il percorso scolastico, le scelte famigliari, la tipologia delle lingua in presenza.
Fra i bambini stranieri nati in Italia, vi sono coloro che sono al momento del loro ingresso a scuola sono monolingui e diventano in seguito bilingui, con l’aggiunta dell’italiano (bilinguismo aggiuntivo) ; coloro che sviluppano da subito una competenza nelle due lingue, grazie all’inserimento all’asilo nido, praticando la madrelingua a casa e l’italiano al servizio educativo e sviluppando così un bilinguismo simultaneo; coloro che imparano a parlare solo in italiano per scelta della famiglia, o in seguito a un discutibile orientamento in tal senso da parte degli operatori e dei servizi per l’infanzia. I linguisti pedagoghi affermano che nella testa di un bambino c’è posto per due lingue: una lingua a casa e un’altra praticata all’esterno; una lingua per gli usi orali e un’altra per lo scritto e per lo studio; una lingua per trattare alcuni temi con determinati interlocutori e un’altra riservata ad altri contesti e parlanti: le competenze e le pratiche orali e scritte integrano spesso parole, suoni, strutture che appartengono a più sistemi e codici.
In ogni caso, le competenze linguistiche già acquisite – qualunque sia la lingua d’origine – rappresentano saperi e punti di forza, una chance da valorizzare, e non ostacoli che si frappongono all’apprendimento del nuovo codice.
Che cosa succede dunque alla madrelingua nel corso del tempo? A volte essa si trova in posizione “debole” e la permanenza e gli usi nel tempo risultano di conseguenza in pericolo. Questo succede soprattutto quando la lingua materna: è considerata nel Paese di immigrazione una lingua “minore e poco diffusa”, non gode di visibilità, supporti scritti, beni linguistici accessibili ai bambini (cartelloni, scritte, libri, video, film…) e viene usata in maniera ristretta nel quotidiano e limitata solo agli scambi intrafamigliari su pochi e prevedibili argomenti e per un tempo limitato.
La prima tappa nel processo di erosione di una lingua è caratterizzata dalle difficoltà e dalle esitazioni di tipo lessicale, quando il parlante non trova la parola nella sua lingua madre per significare oggetti, eventi, esperienze vissute nella seconda lingua. Si registra quindi un uso sempre più esteso della nuova lingua per raccontare, riferire fatti, descrivere situazioni, ambienti, oggetti. Sta di fatto che ogni lingua racconta il mondo a modo suo: parlare una lingua significa “portare” ed esprimere la cultura che essa veicola.
Attraverso i primi contatti comunicativi con l’ambiente che lo circonda il bambino non acquisisce soltanto uno strumento di espressione, ma anche le regole e le rappresentazioni condivise, i significati e il suo posto nel mondo. Interiorizza una logica e un ordine concettuale che lo struttura e lo modella. Costruisce giorno dopo giorno la sua storia attraverso quella lingua.
Quando i bambini stranieri arrivano in Italia, la loro lingua scompare, è assente dai luoghi della scuola e dell’incontro e spesso viene chiesto loro di dimenticarla e metterla da parte per accogliere le nuove parole. Alcune lingue d’origine sono perlomeno evocate, nominate, riconosciute; altre sono del tutto ignorate e appaiono strane, lontane, dalle forme e scritture “bizzarre”. Quando la lingua materna diviene silenziosa, clandestina, marginale, i bambini possono vivere una frattura rispetto alla loro storia precedente, una situazione di perdita e regressione, dal momento che il messaggio che viene loro inviato è che “se non sai l’italiano, non sai, in generale”.
La Giornata internazionale della Lingua Madre si pone come obiettivo proprio la preservazione della lingua madre, soprattutto nelle situazioni migratorie, e mira a sensibilizzare l’opinione pubblica e la comunità scientifica che esiste una grande varietà di lingue che stanno scomparendo. Secondo l’UNESCO, che grazie all’Atlante delle Lingue del Mondo in pericolo monitora la situazione, dal 1950 sarebbero scomparse circa 250 lingue e bel 2500 sarebbero a rischio di estinzione e – quindi – vanno protette. Ogni lingua madre estinta è un bene culturale che lasciamo crollare, disperdersi nel nulla e – al pari di qualsiasi altro monumento o sito UNESCO – vanno tutte tutelate, preservate e valorizzate.